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Il Primo sbarco della mia vita* | Informazione
Il Primo sbarco della mia vita* Reviewed by Momizat on . Che fine fanno i migranti che lasciano Siracusa non lo sappiamo. Se arrivano sani e salvi, e senza essere fermati, fino alla destinazione che si sono prefissati Che fine fanno i migranti che lasciano Siracusa non lo sappiamo. Se arrivano sani e salvi, e senza essere fermati, fino alla destinazione che si sono prefissati Rating: 0
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Il Primo sbarco della mia vita*

Che fine fanno i migranti che lasciano Siracusa non lo sappiamo. Se arrivano sani e salvi, e senza essere fermati, fino alla destinazione che si sono prefissati, questo non lo sappiamo neppure. Sappiamo da dove partono, e come arrivano. Sappiamo che fanno due o più giorni su di un barcone come esseri cadaverici che hanno finito cibo e acqua, con vestiti putridi e dallo sguardo sembrano voler spingere il mezzo con le loro forze fino a riva.

La prima notte di sbarchi che ho affrontato mi sentivo eccitata, in attesa di assistere a una parte della Storia di questa città, perchè un giorno dovrà essere raccontata sui libri, così come la nostra storia è stata raccontata su quella degli americani. Queste sensazioni sono durate solo qualche minuto, il tempo di avvistare la nave della Capitaneria di Porto stracolma di uomini, donne e bambini, anime vive, in bilico ai bordi di una nave,

che odorano di vestiti ammuffiti e pipì rinsecchita sulla pelle. Gli uomini hanno la barba incolta, le unghie sporche, i capelli arruffati e malconci, mani e piedi gonfi, seduti da giorni su barchette che i pescatori nostrani a malapena usano per una notte. I bimbi piangono, quasi sempre restano attoniti quando vengono trasbordati sulle banchine, si lasciano prendere in braccio dagli estranei di turno che li riportano a terra. Addormentati o con gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto. Come se la loro vita rimanesse ferma fino alla dislocazione in un campo di accoglienza, dove lentamente ricominciano a respirare e a vivere, mai consci, forse fortunatamente, del perché sono scappati via dal loro bel paese.

I neonati strillano la paura più recondita, hanno le piaghe al sederino, indossano un solo pannolino durante tutta la traversata, affamati e cullati dalle mani tremolanti delle mamme. Quando le mamme sono ancora vive.

Il piccolo siriano con cui ho trascorso molti giorni al campo, l’ho seguito sin dall’inizio. Dagli abbracci di alcuni poliziotti che lo cospargevano affettuosamente, fino a quando lui e la sua famiglia mi hanno regalato l’ultimo saluto prima della loro nuova avventura. Si svegliava ogni mattina correndo verso di me, con le braccia al cielo come a mimare un aereo, col sorriso più bello del mondo, e il profumo della pelle morbida e inebriante. Saltava al collo, e lo baciavo per minuti interminabili. Mi accarezzava il viso e voleva correre e sentire il vento dondolargli i capelli. Me lo ricordo come fosse ancora tra le mie braccia, e custodisco le sue foto come un diamante gigantesco.

Sulla banchina, quella mattina, un comando della polizia di turno mi ha messo dinanzi una realtà che pochissimi italiani riescono a intravedere. La bellezza e l’umiltà dell’accoglienza di molti uomini in divisa è inaspettata e terribilmente dolce. Amoura, il piccolo bimbo dai capelli castani a caschetto, giocava con un palloncino a forma di mano. Un guanto in lattice, di quelli usati durante il primo contatto con i migranti, gli era stato gonfiato, e lo lasciava svolazzare in cielo felice, mano nella mano con i poliziotti che non lo perdevano di vista un solo istante.

Scordatevi di tutto. Scordatevi delle balle che si raccontano sulla polizia o sui carabinieri o sui finanzieri. Scordatevi della cattiveria cui siamo soliti apostrofare le squadre mobili impegnate nei centri di accoglienza per immigrati, scordatevi delle balle sulle cariche della polizia, sulle fandonie raccontate circa i manganelli. Sono balle, appunto. Dio li ringrazi perché ogni giorno fanno il loro dovere, fanno molto più di quello che è nelle loro mansioni, sono sotto gli occhi di tutti, e non hanno riconoscimenti da parte della cittadinanza e di chi si occupa del volontariato.

Amoura è tra i bimbi siriani più fortunati. Con mamma, papà e fratellino vivi. Accanto a lui e grintosi. Ha vissuto l’esperienza della traversata senza alcun problema di salute, e le due settimane passate al centro “Papa Francesco†di Priolo sono state di giochi, sorrisi, buon cibo e coccole. Gli operatori del centro gli hanno regalato un corredino anche invernale, per affrontare il freddo che in Svezia non si risparmia, e non risparmia nemmeno loro. I genitori si sono rifocillati e hanno aspettato di essere nelle migliori condizioni fisiche per prendere un camion che, da Catania, si doveva muovere verso il Nord Europa. Che fine hanno fatto adesso non posso saperlo. Ho lasciato loro i miei recapiti, nella speranza che un giorno non troppo lontano potranno dirmi che hanno ricominciato una vita di certezze e non più di paure.

Non posso nascondere che mentre scrivo ho il viso ricoperto dalle lacrime, e forse è l’egoismo di un operatore umanitario che trapela da questo pianto. L’egoismo di chi, sentendosi sempre troppo solo, tenta di darsi completamente a chi solo lo è per davvero. Certo, c’è la paura che non siano mai arrivati in Svezia, o che per qualche ragione burocratica siano stati rimandati nell’inferno macabro e drogato della Siria di questi ultimi mesi, c’è la paura di quel bimbo che deve crescere a metà tra ricordi sparuti della terra araba più affascinante del mondo e una vita moderna di civiltà e rigore. C’è la paura di sentirsi inutili dinanzi ad un’accoglienza che, se non fosse per gli operatori, i volontari e le forze dell’ordine, è in mano a chi fa dei migranti un business per la vita e per la politica. Numeri, arrivano con numeri cuciti addosso, sono numeri che vanno via, voti che si creano dal nulla, per un partito o un altro. Con la politica che si è fatta da parte, i comuni che voltano le spalle, le scuole che non accennano a voler creare sinergia con gli enti locali, e una mera naturalezza con la quale viene raccontato questo film, quasi come fosse un film. Ma non lo è.

C’è un regime che ha piegato in due un paese, ribelli che non lottano più con degli ideali ben precisi, un Occidente bugiardo e codardo, un’America assoggettata alla volontà degli israeliani che gestiscono, o vorrebbero gestire, le sorti degli arabi, una Russia che finta di mediare. Ma non media. Assiste sfregandosi le mani, sporche di sangue.

In tutto questo ci sarà Dio. Dovrà pur esserci un Dio che non voglia rimanere fermo a guardare.

E aspetto che questa volta si materializzi in un gesto di pace.

Non c’è soluzione alla malvagità con cui stiamo conducendo, tutti, nessuno escluso, questo ulteriore massacro di vite umane.

 *articolo originale di Valentina Polini

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