Caro Giuliano Ferrara, una ripetizione di storia serve, prima di spararle grosse
Il luogo del delitto è lo studio di La 7 dove Enrico Mentana cerca di imbastire uno speciale dedicato ad inquadrare la figura storica di Giulio Andreotti, tramite due lenti diverse. Una è quella del direttore de Il Fatto Quotidiano, l’altra è quella di Giuliano Ferrara, in veste di direttore de Il Foglio. Durante la ricostruzione storica Ferrara cerca di  accostare Andreotti alla figura di Charles Maurice de Tayllerand, un uomo in grado di servire Luigi XVI, sopravvivere alla Rivoluzione Francese e nonostante aver servito Napoleone, trattare nel 1815 la Restaurazione. Se il diavolo zoppo di Parigi ricorda il Belzebù romano, Ferrara non perde occasione di perpetuare un altro falso storico, molto più infangante e grave per un agente CIA scelto per la sua storica vicinanza al Partito Comunista e al suo successivo passaggio verso i campioni dell’atlantismo degli anni ’90. Un fatto che identifica, attanaglia e lega indissolubilmente la mafia alla sicilianità , in quanto sua essenza ineluttabile. A parlare, a questo punto, non è più il giornalista, ma il sangue che ancora puzza, sull’asfalto rovente di Capaci, a 15 giorni dalla commemorazione di un siciliano che con la sua vita e con la sua morte, mostrò come la Sicilia non è solo mafia.
I mezzi sono sproporzionati, ma spero che la Rete aiuti questa pubblica denuncia a venir fuori e a invitarla, magari con il patrocinio del Comune di Palermo, a replicare ed a spiegare davanti ad un pubblico siciliano quanto lei ha affermato con forza. La Sicilia, come tutte le terre di frontiera, è terra di contrasti, esasperati, aspri, in cui tutto viene esagerato e velocizzato. Non occorre aver scritto Gomorra per rendersi conto che la mafia è un sistema di pensiero che è ritagliato su misura per infilarsi negli ingranaggi del capitalismo finanziario selvaggio. Il concorrente lo si uccide, se prova a competere lo si isola, poi, quando è solo, lo si elimina.
Persino dalle pagine de Il Foglio si può leggere da tempo come i centri di affari delle mafie mondiali sono lì dove nascono e si sviluppano le crisi, collante e olio dei meccanismi finanziari. Anzi, caro dottor Ferrara, come lei saprà , la morte di Borsellino e Falcone fece tirare molti sospiri di sollievo in diverse capitali finanziarie mondiali, dove le indagini di due veri siciliani, seguendo la pista dei soldi, fecero trovare tracce di connivenza a livelli che nemmeno Andreotti in persona avrebbe potuto arrestare.
Perpetrare lo stereotipo di una mafia buona e di una cattiva, di siciliani che sono, nascono crescono e culturalmente sono mafiosi, è il classico peso che si lascia alle spalle per semplificare realtà complesse. Il pensiero mafioso, non è siciliano, non è nemmeno strettamente meridionale. Il pensiero mafioso è violenza, è mancanza di rispetto delle regole, è scegliere la via facile a scapito di quella della legalità è, soprattutto, scegliere di dannarsi la vita e l’anima anziché fare come tanti siciliani, intenti come i loro nonni in passato, a spaccarsi la schiena, a costruire qualcosa ed andare via.
Ecco perché, egregio dottor Ferrara, è con lo sdegno di un siciliano che la invito ad affrontare quanto da lei detto, con la serietà di un siciliano. Venga a Palermo, siamo pronti a pagarle le spese di viaggio e vitto, possiamo organizzare una conferenza a riguardo ospiti del Comune di Palermo, persino il sindaco Leoluca Orlando, oltre che il Comitato 23 Maggio, i familiari di Peppino Impastato, i ragazzi di Addio Pizzo, i familiari di Rita Atria e tutta la costellazione della Sicilia che lotta ogni giorno con i denti e con il sudore, saranno disposti ad ascoltare le sue parole e discutere con lei, cosa è realmente la mafia.
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